Gli audio della tre giorni!

Con la più indecorosa tempistica possibile rendiamo finalmente disponibili le registrazioni (indicizzate!) di (quasi) tutti gli incontri della tre giorni.

Potete trovarle nella sezione “Audio incontri” del menù.

Per i due incontri sui Free Party e sui Dispositivi di governo, di cui purtroppo non abbiamo gli audio, ci prenderemo altro tempo per trovare una forma adeguata di restituzione.

È finita da meno di 24 ore Una decorosa repressione – la tre giorni.

Stiamo ancora riprendendo fiato e per ora possiamo soltanto ringraziare davvero i/le tant* che in questo freddissimo weekend hanno sfidato freddo e neve per raggiungerci a Bologna e partecipare ai tavoli di discussione.

Ringraziamo tutte/i coloro che sono intervenute/i per la profondità dei contributi e la volontà di connettere esperienze e ragionamenti apparentemente distanti.

Appena possibile renderemo disponibili le audio-registrazioni di quasi tutti i tavoli (scelte politiche e imprevisti tecnici hanno fatto sì che due incontri non venissero registrati).

Ci prenderemo poi il tempo per restituire al meglio, con un resoconto scritto, tutto quello emerso in queste giornate.

Nessuna decorosa fretta però.

Migranti, rifugiati, irregolari. Una decorosa selezione

Francesco Ferri, che interverrà per la “Campagna Welcome Taranto” nella terza giornata sulle migrazioni, ci ha generosamente mandato un contributo per il tavolo “Dispositivi di governo”.

 

Cosa può un hotspot?

In che termini è utile osservare il funzionamento di uno degli hotspot attivi in Italia al fine di comprendere gli aspetti salienti delle politiche migratorie contemporanee, nel loro complesso? Questa utilità risiede, in prima battuta, nella natura paradigmatica degli hotspot. Presentato dalla Commissione Europea nell’agenda sulle migrazioni del maggio 2015 in termini di approccio, l’hotspot approach è stato immaginato e realizzato come ipotesi complessiva di gestione dei flussi migratori in entrata: tende, infatti, a realizzarsi ben oltre i luoghi fisici classificati come hotspot. Questure, luoghi di sbarco privi di specifiche strutture hotspot, luoghi del transito, posti di frontiera: tutta la filiera della gestione dei flussi risponde ad una logica hotspot. Quali sono gli assi portanti di questo cambio di paradigma? Sono rintracciabili lungo due assi portanti, che rappresentano l’ossessione ultima del management delle politiche migratorie: il governo della mobilità e la selezione dei flussi in entrata.

Per ciò che concerne il governo della modalità, gli strumenti operativi tramite il quale le persone vengono confinate all’interno del paese di primo approdo – e, a cascata, all’interno di territori specifici di tale paese – assumono varie forme, in una cornice di strutturale brutalità. L’identificazione forzata – attuata in maniera sistematica anche tramite l’esercizio di violenza e trattenimenti informali, soprattutto nei primi mesi di sperimentazione dell’approccio – nei fatti vincola i potenziali richiedenti asilo al primo paese di ingresso. In aggiunta, la prassi dei trasferimenti coatti (migliaia di persone trasferite forzatamente in bus verso sud, con cadenza settimanale), attuati dalle località di confine, soprattutto da Ventimiglia, verso l’hotspot di Taranto per alleggerire la pressione in frontiera, rappresentano, in maniera plastica, da un lato l’arbitrio delle pubbliche autorità (che dispongono e attuano prassi informali, al di fuori di specifiche previsioni normative, predisposte per esigenze nei fatti punitive, in una condizione di trattenimento), dall’altro mostrano, in maniera limpida, quanto le e i migranti adottino strategie e tattiche strutturalmente ingovernabili, rifiutando di occupare i luoghi nei quali sono confinati, provando a transitare informalmente verso altri paesi UE, ritornando nelle località di confine anche dopo i trasferimenti coatti verso sud. La logica del decoro – ripulire le strade di Ventimiglia dall’insalubre presenza dei migranti, confinare più a sud il transito in modo da controllare in maniera più efficace le condotte dei singoli e delle comunità e limitare i tentativi di attraversamento dei confini– nelle pratiche di governo della mobilità risuona senza soluzione di continuità.

Dentro la decorosa selezione

La selezione dei flussi in ingresso – il secondo punto focale intorno al quale ruota l’approccio hotspot – è attuata attraverso l’utilizzo di strumenti apparentemente più sofisticati, ma non meno brutali. Nei fatti, la necessità di istituire un nuovo approccio prende forma in ragione della retorica della differenziazione: che siano divisi i veri richiedenti asilo dai migranti economici! È appena il caso di evidenziare che tale differenziazione in nessun caso può essere attuata dalle autorità di polizia, le quali si dovrebbero limitare a prendere in carico – negli hotspot, nei luoghi di sbarco, nei luoghi di frontiera, nelle questure – la domanda di asilo presentata da cittadini stranieri. Nei fatti un numero significativo di potenziali richiedenti asilo viene illegalizzato attraverso meccanismi informali – somministrazione di informazioni inadeguate, false, incongrue, mancata presa in carico delle domande di asilo, classificazione automatica come migrante economico – che conducono all’emissione di provvedimenti di respingimento o di espulsione. Nei fatti, è l’anticamera per il rimpatrio coatto, il trattenimento nei CPR o – nella maggior parte dei casi – per la permanenza senza titolo di soggiorno, senza la possibilità di sottoscrivere contratti di lavoro e di locazione.

Lungo quale traiettoria si dispiegano le politiche di selezione? Ancora una volta, l’attuazione dell’approccio hotspot è permeato logiche che hanno a che fare con la retorica del decoro. La selezione avviene, nella maggior parte dei casi, in ragione del gruppo nazionale di provenienza. È una previsione attuata tramite meccanismi informali, tutta al di fuori della normativa italiana ed europea. I gruppi nazionali tendenzialmente esclusi dalla possibilità di accedere alla domanda di asilo e respinti o espulsi, in questa specifica fase, sono quelli identificati, nella retorica dominante, come strutturalmente riottosi e indisciplinati: ad esempio maghrebini, egiziani, nigeriani. Si tratta, ancora una volta, di una prassi extralegale, che si nutre di saperi diffusi e risponde a logiche sistemiche. Tale stigma nei confronti di specifici gruppi nazionali – quelli citati, ma anche tanti altri – è rintracciabile lungo tutta la filiera dell’accoglienza. Non c’è ordine del discorso che operi nei luoghi di sbarco, dentro gli hotspot, all’interno delle questure e finanche in molti centri di accoglienza che non sia strutturato (anche) intorno alla gerarchizzazione tra gruppi di bisognosi (in fuga dalla guerra e dalla miseria) e gruppi di indesiderati.

La decorosa selezione produce effetti non soltanto nel campo astratto della violazione dei diritti. Produce potenziali fratture anche in termini di condizioni materiali di vita. Una razzializzazione tanto informale quanto diffusa separa, disciplina, organizza il flusso migratorio nel suo complesso lungo l’asse dell’inclusione differenziata. Non si tratta di escludere dalla società alcune categorie e/o gruppi nazionali. Si tratta di renderli produttivi in quanto portatori di presunte differenze, e includerli – in maniera doppiamente subordinata – all’interno del tessuto produttivo e sociale.

Soggettività, desideri, movimenti

Che fare, davanti alla decorosa selezione, come attiviste e attivisti? In primo luogo le politiche di selezione e di controllo della mobilità, se studiate da dentro, nel momento in cui si dispiegano, sono straordinari laboratori di resistenze e fughe. Se i bus che trasportano coattivamente i migranti da Ventimiglia a Taranto ben rappresentano la violenza – simbolica e materiale – che da sempre organizza le politiche migratorie, il contromovimento delle e dei migranti che, malgrado i divieti e gli impedimenti di fatto, ripercorrono a ritroso il percorso Taranto/Ventimiglia, per sperimentare nuove strategie di superamento dei confini chiusi, rappresenta un efficace antidoto contro l’idea che le e i migranti siano soggetti da aiutare, in balia delle politiche, ossequiosi e disciplinati.

Non di meno, una certa enfasi nei confronti del transito informale come pratica di libertà taglia con l’accetta il tema delle condizioni materiali – di lavoro, di movimento, di vita – che caratterizzano l’esistenza delle e dei migranti. Quello tra desiderio di fuga – da un luogo, da una condizione, da un margine – e tecniche di disciplinamento, confinamento e controllo è un corpo a corpo che va in scena incessantemente, all’interno delle società di accoglienza.

Che tipo di relazioni instauriamo, all’interno delle pratiche solidali? In che termini riproducono logiche razzializzanti? Quanto spazio diamo ai bisogni e quanto ai desideri delle persone che incrociamo nei nostri percorsi politici? Ripensare la portata della decorosa selezione può essere un’occasione per decolonizzare i nostri sguardi, i nostri metodi e finanche la nostra postura. Fuori e contro la retorica dell’integrazione – che molto spesso ha il retrogusto dell’addomesticamento – c’è un mondo di possibili sperimentazioni politiche e in termini di forme di vita che attendono di essere immaginate e costruite.

La fastidiosa elemosina e il decoroso fascista

“Io stesso sono tollerante ma provo fastidio quando vedo questi qui spacciare e anche quando li vedo chiedere l’elemosina. Però noi siamo una città premiata per la nostra apertura”

Queste le parole di Romano Carancini, sindaco PD di Macerata, il giorno dopo la sparatoria razzista. Solo chi è totalmente obnubilato dal veleno dell’ideologia del decoro poteva immaginare di sottolineare il “fastidio” che prova verso i migranti quando compiono l’indecoroso gesto di chiedere uno spicciolo.

I migranti devono essere decorosi, i poveri devono scomparire: se non lo fanno creano “fastidio”. E molto “fastidio”, si sa, crea “esasperazione”. E l’”esasperazione” crea i Traini, nella logica aberrante – da ogni punto di vista aberrante, anche da quello dei liberaldemocratici, se esistessero – fatta propria da tutte le destre in campo (dal Pd a quelle apertamente fasciste).

La “decorosa repressione” è questa: in nome del decoro si respinge la complessità dei problemi, si legittima, più o meno apertamente, la persecuzione, quando non il tentato omicidio e l’omicidio, degli ultimi e dei discriminati.

E intanto il “lato buono” del Pd promuove un’”accoglienza” minimale, inadeguata e repressiva dei pochi che possono dimostrare di essere meritevoli e “decorosi”. E gli altri siano consegnati al deserto, al mare. O ai Traini.

Mercoledì 13/12 ore 19 – In nome del decoro

In nome del decoro – verso la tre giorni di Febbraio

Dal 23 al 25 Febbraio a Bologna si aprirà uno spazio di discussione chiamato “Una decorosa repressione”: tre giorni di discussioni e incontri su corpi, decoro e repressione.

Per lanciare quelle giornate pensiamo utile partire dalla questione del decoro, strumento retorico che è necessario decostruire per capire soggetti, azioni e reazioni che mobilita.

Proviamo a immaginare lo spazio pubblico come un campo di forze, attraversato da forze più o meno organizzate, che si muovono dall’alto o dal basso, che operano sul piano del simbolico e/o del materiale. Qui si generano i rapporti di forza che informano e danno una struttura a una piazza, una strada, un quartiere, una città.

Tutto compartecipa alla definizione dello spazio che abitiamo e/o attraversiamo:residenti, associazioni, collettivi politici, frequentatori di bar e locali, chi semplicemente in strada ci vive.
Il discorso sul decoro urbano rimbalza da blog e pagine facebook, è amplificato e cavalcato da quotidiani e amministratori locali, ha effetti poi sulla realtà e legittima interventi e comportamenti repressivi.
Alimentando la paura del diverso, dell’Altro, dell’imprevisto che non si conforma alla città decorosa questo deve essere corretto o espulso.

I cittadini si organizzano per ripulire i muri dalle scritte, i sindaci e i questori mettono al bando soggetti sgraditi con daspo urbani e fogli di via.

L’immensità e la solennità della questione della Paura rende lo strumento del decoro e della sicurezza del cittadino quasi un elemento salvifico da venerare, una nuova religione senza la quale l’intera società sarebbe destinata alla “barbarie”. Nei fatti diventa uno strumento di controllo e repressione di soggetti e comportamenti non direttamente orientati al consumo. Come spiega Carmen Pisanello, autrice di “In nome del decoro” :

“Il tema del decoro ha iniziato a essere affrontato in Italia con l’idea di proporre una riflessione sulla sicurezza urbana che prendesse sul serio le paure dei cittadini, facendo leva su concetti come il degrado, il decoro e le inciviltà urbane […] ciò che viene normato allo scopo di garantire una convivenza pacifica, sembra non essere una gestione dello spazio pubblico con una prospettiva di creazione e coesione comunitaria, ma al contrario la tutela degli interessi particolari sullo spazio pubblico”.

“Se le nostre città fanno schifo, sembrano dirci i solerti tutori del decoro, la colpa è di quelli che stanno peggio di noi, e che minacciano le nostre sicure case europee. E’ dunque dagli angusti tinelli delle nostre illusioni borghesi, dunque, che attacchiamo le strade e le piazze delle città, nell’illusione di depurarle dai conflitti che da sempre le animano e le fanno crescere.”

Parleremo di tutto questo e molto altro il prossimo mercoledì 13/12 in via Zamboni 38.
Sarà presente l’autrice del libro Carmen Pisanello, realtà attive nella zona universitaria tra cui il Collettivo Universitario Autonomo e alcun* compagn* che presenteranno la tre giorni in programma per la fine di febbraio

Una decorosa repressione

 

Una decorosa repressione: tre giorni di discussione e incontri su corpi, decoro e repressione

 23-25 Febbraio 2018 – Bologna

Lo spazio può assumere due modalità: liscio e striato. Lo spazio pubblico in particolare è attraversato da corpi e merci. Uno spazio striato è fatto di divisioni, strade, marciapiedi, cancelli, tornelli, proprietà privata. Lo spazio urbano è sicuramente uno spazio striato. Lo spazio liscio gli è contrapposto e non ha divisioni nette, confini fisici o immateriali. Eppure è possibile ritrovare spazi lisci anche nello spazio urbano, spazi liberati o spazi non ancora messi a valore.

Probabilmente la massima espressione dello spazio liscio è il mare, non a caso si è sempre cercato di striarlo, di tracciargli confini, dagli imperi del mondo antico all’istituzione dell’agenzia Frontex. Il progetto di spazio pubblico delineato dalla governance neoliberale pare chiaro: uno spazio liscio, quindi libertà di movimento, per le merci e il denaro; uno spazio striato, quindi confini e barriere di inclusione differenziata, per i corpi e le vite di tutti/e.

Ci hanno a lungo insegnato che quando c’erano dei nemici, c’erano dei muri a proteggerci: le zone di guerra per quelli lontani, le frontiere per quelli esterni, le carceri per quelli interni. Ognuno di questi nemici era facile da riconoscere. Oggi che la guerra penetra fino al bar mentre sorseggiamo succo d’arancia davanti al giornale, il sospetto corre tra gli scaffali del supermercato, i nemici sono ovunque. La divisione tra un “dentro” fatto di integrazione/assorbimento e decoro, e un “fuori” dove allontanare irregolari e indecorosi, crediamo sia il tratto comune delle amministrazioni di Pd, M5S e delle altre destre.  In questo gioco non solo lo spazio urbano si leviga sempre di più per perfezionare il fluire di merci, consumo e profitto, ma anche noi dovremmo filare dritti come biglie, su percorsi posticci fatti di uso e consumo, garantiti da ordinanze e polizia. Quello che è consono è uno stile di vita prevedibile come l’arredamento Ikea, i pensieri ripuliti da una retata preventiva, i desideri già perquisiti da noi stessi. Le ordinanze contro il consumo di alcolici e contro gli assembramenti spontanei della cosiddetta “movida”; la caccia ai venditori ambulanti sulle spiagge e nelle città (quelle “legali” condotte dai Vigili Urbani e quelle “illegali” e convergenti promosse dai neofascisti); il daspo urbano previsto dai nuovi decreti configurabile per reati quali accattonaggio, prostituzione, spaccio e imbrattamento, l’attacco generale e generalizzato alla povertà e alle forme di vita non conformi. Se il progetto è creare città con centri-vetrina il prezzo è far nascere nuovi spazi-ghetto, fatti di abbandono e violenza. Tutto ciò che vi si oppone in forma organizzata, come le forme di vita militanti, le occupazioni abitative, gli spazi sociali devono essere chiusi o essere relegati in zone che non sono di interesse strategico; così come ciò che si oppone a questa visione per la sua semplice esistenza: l’immagine di un@ trans, un@ migrante, un@ ultras, un@ tossic@, un bevitore fuori orario e “fuori dehors” non può riflettere nella città-vetrina, deve essere allontanato, costituisce degrado. Il proibizionismo e il regime della paura (la sola vera causa di piazza San Carlo, non certo i vetri a terra o gli ultras); l’implacabilità con cui si procede agli sgomberi delle occupazioni abitative e sociali; i fogli di via e gli altri provvedimenti da stato di polizia rispolverati dalle questure; il razzismo istituzionale esercitato nei confronti di migranti sia a livello di ordinanze di sindaci quanto di legge dello stato (decreto Minniti); la videosorveglianza diffusa e la continua identificazione. Non serve una lente d’ingrandimento per accorgersi di quanto queste storie parlino dello stesso modello di governance delle città e di fruizione dello (o di esclusione dallo) spazio pubblico.

Guardando la struttura di questi provvedimenti emerge la volontà di trasformare lo spazio urbano in un grande supermarket conformato alle esigenze di turisti facoltosi e a quelle di commercianti “green” e della cosiddetta classe creativa. Per questo si ritiene necessario contrastare la socialità spontanea, chiudere attività “low budget” e aprirne nuove più carine, “sostenibili” e soprattutto selettive lungo linee di classe e razza. E’ necessario imporre, in una parola, il decoro. Crediamo sia questo lo strumento retorico più efficace con cui veicolare razzismo e servitù volontaria strizzando l’occhio alle pulsioni reazionarie degli sfruttati, togliendo dalle spalle di ognuno il peso della responsabilità di dover reagire all’oppressione. Da qui deriva l’impasto di allontanamento e repressione che colpisce migranti, poveri, giovani a basso reddito e chi si oppone – con la militanza politica, ma anche con una semplice scritta sul muro – a questa trasformazione. Tutti insieme, questi soggetti e le loro pratiche, sono etichettati come degrado.

E allora riteniamo che valga la pena di tentare di comprendere questi fenomeni nella loro complessità per provare ad organizzare una risposta collettiva ampia, aggredire il presente e provare a connettere esperienze e riflessioni diverse in un quadro più ampio, che riguardi le città e le vite di tutte/i noi.

La sfida che secondo noi ha senso porci, come corpi che attraversano la metropoli, è quella di domandarci quali forme e luoghi di solidarietà e resistenza ci diamo rispetto ai dispositivi repressivi in campo.

Il nostro è un invito a delle giornate di discussione e confronto, poniamo una scommessa a tutte le realtà e alle libere singolarità ribelli. Ci sarà spazio per l’intervento e il contributo di tutte/i purché non si abbiano pretese egemoniche o deliri di purezza. Crediamo che ogni risposta individuale e collettiva ai dispositivi repressivi abbia ragion d’essere, sia legittima, situata e legata a precise scelte politiche, e in quanto tale vada rispettata.

Vorremmo che una volta concluse queste giornate, che oltre al confronto saranno anche di festa e di riappropriazione, tutt@ tornino a casa con nuovi stimoli e suggestioni da tradurre nei propri territori.