La fastidiosa elemosina e il decoroso fascista

“Io stesso sono tollerante ma provo fastidio quando vedo questi qui spacciare e anche quando li vedo chiedere l’elemosina. Però noi siamo una città premiata per la nostra apertura”

Queste le parole di Romano Carancini, sindaco PD di Macerata, il giorno dopo la sparatoria razzista. Solo chi è totalmente obnubilato dal veleno dell’ideologia del decoro poteva immaginare di sottolineare il “fastidio” che prova verso i migranti quando compiono l’indecoroso gesto di chiedere uno spicciolo.

I migranti devono essere decorosi, i poveri devono scomparire: se non lo fanno creano “fastidio”. E molto “fastidio”, si sa, crea “esasperazione”. E l’”esasperazione” crea i Traini, nella logica aberrante – da ogni punto di vista aberrante, anche da quello dei liberaldemocratici, se esistessero – fatta propria da tutte le destre in campo (dal Pd a quelle apertamente fasciste).

La “decorosa repressione” è questa: in nome del decoro si respinge la complessità dei problemi, si legittima, più o meno apertamente, la persecuzione, quando non il tentato omicidio e l’omicidio, degli ultimi e dei discriminati.

E intanto il “lato buono” del Pd promuove un’”accoglienza” minimale, inadeguata e repressiva dei pochi che possono dimostrare di essere meritevoli e “decorosi”. E gli altri siano consegnati al deserto, al mare. O ai Traini.

Mercoledì 13/12 ore 19 – In nome del decoro

In nome del decoro – verso la tre giorni di Febbraio

Dal 23 al 25 Febbraio a Bologna si aprirà uno spazio di discussione chiamato “Una decorosa repressione”: tre giorni di discussioni e incontri su corpi, decoro e repressione.

Per lanciare quelle giornate pensiamo utile partire dalla questione del decoro, strumento retorico che è necessario decostruire per capire soggetti, azioni e reazioni che mobilita.

Proviamo a immaginare lo spazio pubblico come un campo di forze, attraversato da forze più o meno organizzate, che si muovono dall’alto o dal basso, che operano sul piano del simbolico e/o del materiale. Qui si generano i rapporti di forza che informano e danno una struttura a una piazza, una strada, un quartiere, una città.

Tutto compartecipa alla definizione dello spazio che abitiamo e/o attraversiamo:residenti, associazioni, collettivi politici, frequentatori di bar e locali, chi semplicemente in strada ci vive.
Il discorso sul decoro urbano rimbalza da blog e pagine facebook, è amplificato e cavalcato da quotidiani e amministratori locali, ha effetti poi sulla realtà e legittima interventi e comportamenti repressivi.
Alimentando la paura del diverso, dell’Altro, dell’imprevisto che non si conforma alla città decorosa questo deve essere corretto o espulso.

I cittadini si organizzano per ripulire i muri dalle scritte, i sindaci e i questori mettono al bando soggetti sgraditi con daspo urbani e fogli di via.

L’immensità e la solennità della questione della Paura rende lo strumento del decoro e della sicurezza del cittadino quasi un elemento salvifico da venerare, una nuova religione senza la quale l’intera società sarebbe destinata alla “barbarie”. Nei fatti diventa uno strumento di controllo e repressione di soggetti e comportamenti non direttamente orientati al consumo. Come spiega Carmen Pisanello, autrice di “In nome del decoro” :

“Il tema del decoro ha iniziato a essere affrontato in Italia con l’idea di proporre una riflessione sulla sicurezza urbana che prendesse sul serio le paure dei cittadini, facendo leva su concetti come il degrado, il decoro e le inciviltà urbane […] ciò che viene normato allo scopo di garantire una convivenza pacifica, sembra non essere una gestione dello spazio pubblico con una prospettiva di creazione e coesione comunitaria, ma al contrario la tutela degli interessi particolari sullo spazio pubblico”.

“Se le nostre città fanno schifo, sembrano dirci i solerti tutori del decoro, la colpa è di quelli che stanno peggio di noi, e che minacciano le nostre sicure case europee. E’ dunque dagli angusti tinelli delle nostre illusioni borghesi, dunque, che attacchiamo le strade e le piazze delle città, nell’illusione di depurarle dai conflitti che da sempre le animano e le fanno crescere.”

Parleremo di tutto questo e molto altro il prossimo mercoledì 13/12 in via Zamboni 38.
Sarà presente l’autrice del libro Carmen Pisanello, realtà attive nella zona universitaria tra cui il Collettivo Universitario Autonomo e alcun* compagn* che presenteranno la tre giorni in programma per la fine di febbraio

Una decorosa repressione

 

Una decorosa repressione: tre giorni di discussione e incontri su corpi, decoro e repressione

 23-25 Febbraio 2018 – Bologna

Lo spazio può assumere due modalità: liscio e striato. Lo spazio pubblico in particolare è attraversato da corpi e merci. Uno spazio striato è fatto di divisioni, strade, marciapiedi, cancelli, tornelli, proprietà privata. Lo spazio urbano è sicuramente uno spazio striato. Lo spazio liscio gli è contrapposto e non ha divisioni nette, confini fisici o immateriali. Eppure è possibile ritrovare spazi lisci anche nello spazio urbano, spazi liberati o spazi non ancora messi a valore.

Probabilmente la massima espressione dello spazio liscio è il mare, non a caso si è sempre cercato di striarlo, di tracciargli confini, dagli imperi del mondo antico all’istituzione dell’agenzia Frontex. Il progetto di spazio pubblico delineato dalla governance neoliberale pare chiaro: uno spazio liscio, quindi libertà di movimento, per le merci e il denaro; uno spazio striato, quindi confini e barriere di inclusione differenziata, per i corpi e le vite di tutti/e.

Ci hanno a lungo insegnato che quando c’erano dei nemici, c’erano dei muri a proteggerci: le zone di guerra per quelli lontani, le frontiere per quelli esterni, le carceri per quelli interni. Ognuno di questi nemici era facile da riconoscere. Oggi che la guerra penetra fino al bar mentre sorseggiamo succo d’arancia davanti al giornale, il sospetto corre tra gli scaffali del supermercato, i nemici sono ovunque. La divisione tra un “dentro” fatto di integrazione/assorbimento e decoro, e un “fuori” dove allontanare irregolari e indecorosi, crediamo sia il tratto comune delle amministrazioni di Pd, M5S e delle altre destre.  In questo gioco non solo lo spazio urbano si leviga sempre di più per perfezionare il fluire di merci, consumo e profitto, ma anche noi dovremmo filare dritti come biglie, su percorsi posticci fatti di uso e consumo, garantiti da ordinanze e polizia. Quello che è consono è uno stile di vita prevedibile come l’arredamento Ikea, i pensieri ripuliti da una retata preventiva, i desideri già perquisiti da noi stessi. Le ordinanze contro il consumo di alcolici e contro gli assembramenti spontanei della cosiddetta “movida”; la caccia ai venditori ambulanti sulle spiagge e nelle città (quelle “legali” condotte dai Vigili Urbani e quelle “illegali” e convergenti promosse dai neofascisti); il daspo urbano previsto dai nuovi decreti configurabile per reati quali accattonaggio, prostituzione, spaccio e imbrattamento, l’attacco generale e generalizzato alla povertà e alle forme di vita non conformi. Se il progetto è creare città con centri-vetrina il prezzo è far nascere nuovi spazi-ghetto, fatti di abbandono e violenza. Tutto ciò che vi si oppone in forma organizzata, come le forme di vita militanti, le occupazioni abitative, gli spazi sociali devono essere chiusi o essere relegati in zone che non sono di interesse strategico; così come ciò che si oppone a questa visione per la sua semplice esistenza: l’immagine di un@ trans, un@ migrante, un@ ultras, un@ tossic@, un bevitore fuori orario e “fuori dehors” non può riflettere nella città-vetrina, deve essere allontanato, costituisce degrado. Il proibizionismo e il regime della paura (la sola vera causa di piazza San Carlo, non certo i vetri a terra o gli ultras); l’implacabilità con cui si procede agli sgomberi delle occupazioni abitative e sociali; i fogli di via e gli altri provvedimenti da stato di polizia rispolverati dalle questure; il razzismo istituzionale esercitato nei confronti di migranti sia a livello di ordinanze di sindaci quanto di legge dello stato (decreto Minniti); la videosorveglianza diffusa e la continua identificazione. Non serve una lente d’ingrandimento per accorgersi di quanto queste storie parlino dello stesso modello di governance delle città e di fruizione dello (o di esclusione dallo) spazio pubblico.

Guardando la struttura di questi provvedimenti emerge la volontà di trasformare lo spazio urbano in un grande supermarket conformato alle esigenze di turisti facoltosi e a quelle di commercianti “green” e della cosiddetta classe creativa. Per questo si ritiene necessario contrastare la socialità spontanea, chiudere attività “low budget” e aprirne nuove più carine, “sostenibili” e soprattutto selettive lungo linee di classe e razza. E’ necessario imporre, in una parola, il decoro. Crediamo sia questo lo strumento retorico più efficace con cui veicolare razzismo e servitù volontaria strizzando l’occhio alle pulsioni reazionarie degli sfruttati, togliendo dalle spalle di ognuno il peso della responsabilità di dover reagire all’oppressione. Da qui deriva l’impasto di allontanamento e repressione che colpisce migranti, poveri, giovani a basso reddito e chi si oppone – con la militanza politica, ma anche con una semplice scritta sul muro – a questa trasformazione. Tutti insieme, questi soggetti e le loro pratiche, sono etichettati come degrado.

E allora riteniamo che valga la pena di tentare di comprendere questi fenomeni nella loro complessità per provare ad organizzare una risposta collettiva ampia, aggredire il presente e provare a connettere esperienze e riflessioni diverse in un quadro più ampio, che riguardi le città e le vite di tutte/i noi.

La sfida che secondo noi ha senso porci, come corpi che attraversano la metropoli, è quella di domandarci quali forme e luoghi di solidarietà e resistenza ci diamo rispetto ai dispositivi repressivi in campo.

Il nostro è un invito a delle giornate di discussione e confronto, poniamo una scommessa a tutte le realtà e alle libere singolarità ribelli. Ci sarà spazio per l’intervento e il contributo di tutte/i purché non si abbiano pretese egemoniche o deliri di purezza. Crediamo che ogni risposta individuale e collettiva ai dispositivi repressivi abbia ragion d’essere, sia legittima, situata e legata a precise scelte politiche, e in quanto tale vada rispettata.

Vorremmo che una volta concluse queste giornate, che oltre al confronto saranno anche di festa e di riappropriazione, tutt@ tornino a casa con nuovi stimoli e suggestioni da tradurre nei propri territori.