Migranti, rifugiati, irregolari. Una decorosa selezione

Francesco Ferri, che interverrà per la “Campagna Welcome Taranto” nella terza giornata sulle migrazioni, ci ha generosamente mandato un contributo per il tavolo “Dispositivi di governo”.

 

Cosa può un hotspot?

In che termini è utile osservare il funzionamento di uno degli hotspot attivi in Italia al fine di comprendere gli aspetti salienti delle politiche migratorie contemporanee, nel loro complesso? Questa utilità risiede, in prima battuta, nella natura paradigmatica degli hotspot. Presentato dalla Commissione Europea nell’agenda sulle migrazioni del maggio 2015 in termini di approccio, l’hotspot approach è stato immaginato e realizzato come ipotesi complessiva di gestione dei flussi migratori in entrata: tende, infatti, a realizzarsi ben oltre i luoghi fisici classificati come hotspot. Questure, luoghi di sbarco privi di specifiche strutture hotspot, luoghi del transito, posti di frontiera: tutta la filiera della gestione dei flussi risponde ad una logica hotspot. Quali sono gli assi portanti di questo cambio di paradigma? Sono rintracciabili lungo due assi portanti, che rappresentano l’ossessione ultima del management delle politiche migratorie: il governo della mobilità e la selezione dei flussi in entrata.

Per ciò che concerne il governo della modalità, gli strumenti operativi tramite il quale le persone vengono confinate all’interno del paese di primo approdo – e, a cascata, all’interno di territori specifici di tale paese – assumono varie forme, in una cornice di strutturale brutalità. L’identificazione forzata – attuata in maniera sistematica anche tramite l’esercizio di violenza e trattenimenti informali, soprattutto nei primi mesi di sperimentazione dell’approccio – nei fatti vincola i potenziali richiedenti asilo al primo paese di ingresso. In aggiunta, la prassi dei trasferimenti coatti (migliaia di persone trasferite forzatamente in bus verso sud, con cadenza settimanale), attuati dalle località di confine, soprattutto da Ventimiglia, verso l’hotspot di Taranto per alleggerire la pressione in frontiera, rappresentano, in maniera plastica, da un lato l’arbitrio delle pubbliche autorità (che dispongono e attuano prassi informali, al di fuori di specifiche previsioni normative, predisposte per esigenze nei fatti punitive, in una condizione di trattenimento), dall’altro mostrano, in maniera limpida, quanto le e i migranti adottino strategie e tattiche strutturalmente ingovernabili, rifiutando di occupare i luoghi nei quali sono confinati, provando a transitare informalmente verso altri paesi UE, ritornando nelle località di confine anche dopo i trasferimenti coatti verso sud. La logica del decoro – ripulire le strade di Ventimiglia dall’insalubre presenza dei migranti, confinare più a sud il transito in modo da controllare in maniera più efficace le condotte dei singoli e delle comunità e limitare i tentativi di attraversamento dei confini– nelle pratiche di governo della mobilità risuona senza soluzione di continuità.

Dentro la decorosa selezione

La selezione dei flussi in ingresso – il secondo punto focale intorno al quale ruota l’approccio hotspot – è attuata attraverso l’utilizzo di strumenti apparentemente più sofisticati, ma non meno brutali. Nei fatti, la necessità di istituire un nuovo approccio prende forma in ragione della retorica della differenziazione: che siano divisi i veri richiedenti asilo dai migranti economici! È appena il caso di evidenziare che tale differenziazione in nessun caso può essere attuata dalle autorità di polizia, le quali si dovrebbero limitare a prendere in carico – negli hotspot, nei luoghi di sbarco, nei luoghi di frontiera, nelle questure – la domanda di asilo presentata da cittadini stranieri. Nei fatti un numero significativo di potenziali richiedenti asilo viene illegalizzato attraverso meccanismi informali – somministrazione di informazioni inadeguate, false, incongrue, mancata presa in carico delle domande di asilo, classificazione automatica come migrante economico – che conducono all’emissione di provvedimenti di respingimento o di espulsione. Nei fatti, è l’anticamera per il rimpatrio coatto, il trattenimento nei CPR o – nella maggior parte dei casi – per la permanenza senza titolo di soggiorno, senza la possibilità di sottoscrivere contratti di lavoro e di locazione.

Lungo quale traiettoria si dispiegano le politiche di selezione? Ancora una volta, l’attuazione dell’approccio hotspot è permeato logiche che hanno a che fare con la retorica del decoro. La selezione avviene, nella maggior parte dei casi, in ragione del gruppo nazionale di provenienza. È una previsione attuata tramite meccanismi informali, tutta al di fuori della normativa italiana ed europea. I gruppi nazionali tendenzialmente esclusi dalla possibilità di accedere alla domanda di asilo e respinti o espulsi, in questa specifica fase, sono quelli identificati, nella retorica dominante, come strutturalmente riottosi e indisciplinati: ad esempio maghrebini, egiziani, nigeriani. Si tratta, ancora una volta, di una prassi extralegale, che si nutre di saperi diffusi e risponde a logiche sistemiche. Tale stigma nei confronti di specifici gruppi nazionali – quelli citati, ma anche tanti altri – è rintracciabile lungo tutta la filiera dell’accoglienza. Non c’è ordine del discorso che operi nei luoghi di sbarco, dentro gli hotspot, all’interno delle questure e finanche in molti centri di accoglienza che non sia strutturato (anche) intorno alla gerarchizzazione tra gruppi di bisognosi (in fuga dalla guerra e dalla miseria) e gruppi di indesiderati.

La decorosa selezione produce effetti non soltanto nel campo astratto della violazione dei diritti. Produce potenziali fratture anche in termini di condizioni materiali di vita. Una razzializzazione tanto informale quanto diffusa separa, disciplina, organizza il flusso migratorio nel suo complesso lungo l’asse dell’inclusione differenziata. Non si tratta di escludere dalla società alcune categorie e/o gruppi nazionali. Si tratta di renderli produttivi in quanto portatori di presunte differenze, e includerli – in maniera doppiamente subordinata – all’interno del tessuto produttivo e sociale.

Soggettività, desideri, movimenti

Che fare, davanti alla decorosa selezione, come attiviste e attivisti? In primo luogo le politiche di selezione e di controllo della mobilità, se studiate da dentro, nel momento in cui si dispiegano, sono straordinari laboratori di resistenze e fughe. Se i bus che trasportano coattivamente i migranti da Ventimiglia a Taranto ben rappresentano la violenza – simbolica e materiale – che da sempre organizza le politiche migratorie, il contromovimento delle e dei migranti che, malgrado i divieti e gli impedimenti di fatto, ripercorrono a ritroso il percorso Taranto/Ventimiglia, per sperimentare nuove strategie di superamento dei confini chiusi, rappresenta un efficace antidoto contro l’idea che le e i migranti siano soggetti da aiutare, in balia delle politiche, ossequiosi e disciplinati.

Non di meno, una certa enfasi nei confronti del transito informale come pratica di libertà taglia con l’accetta il tema delle condizioni materiali – di lavoro, di movimento, di vita – che caratterizzano l’esistenza delle e dei migranti. Quello tra desiderio di fuga – da un luogo, da una condizione, da un margine – e tecniche di disciplinamento, confinamento e controllo è un corpo a corpo che va in scena incessantemente, all’interno delle società di accoglienza.

Che tipo di relazioni instauriamo, all’interno delle pratiche solidali? In che termini riproducono logiche razzializzanti? Quanto spazio diamo ai bisogni e quanto ai desideri delle persone che incrociamo nei nostri percorsi politici? Ripensare la portata della decorosa selezione può essere un’occasione per decolonizzare i nostri sguardi, i nostri metodi e finanche la nostra postura. Fuori e contro la retorica dell’integrazione – che molto spesso ha il retrogusto dell’addomesticamento – c’è un mondo di possibili sperimentazioni politiche e in termini di forme di vita che attendono di essere immaginate e costruite.