Giorno 1 // Forme di Vita

Dal daspo negli stadi al daspo urbano

Sul finire dello scorso 2017 sulla stampa – soprattutto locale – sono comparse un po’ ovunque notizie e riflessioni riguardanti l’applicazione del cosiddetto Daspo Urbano in molti comuni e città.
Con questa espressione giornalistica ci si riferisce a uno dei provvedimenti amministrativi introdotti dal Decreto Minniti (DL 14/2017 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”). Il “Daspo“ comporta l’allontanamento del soggetto colpito da aree precise della città per un periodo che va dai 6 mesi ai 2 anni.
Rientrando tra le misure preventive di allontanamento non necessita dell’autorizzazione di un giudice né delle prove di un reato, ma si fonda sulla presunta pericolosità sociale del soggetto e può essere emanato dal questore di fronte a “condotte che impediscono accessibilità e fruizione di infrastrutture urbane”. Questa vaga definizione lascia ampio spazio di manovra alle questure e rende il daspo urbano uno strumento particolarmente efficace nell’opera di “pulizia” e perimetrazione delle città.
La sua applicazione ha riguardato finora soggetti molto diversi, ma accomunati da povertà e/o marginalità sociale. Secondo stime giornalistiche sarebbero più di 600 i casi di allontanamento preventivo conseguente a daspo urbano, ma è lecito supporre i numeri siano molto maggiori.
Tante sono state le voci critiche a questo dispositivo: voci contrarie si sono sollevate anche tra cittadini benpensanti, tra le associazioni, nel mondo cattolico e talvolta persino tra le fila del “centro-sinistra”. La maggior parte di queste voci però sembrano far propria l’ideologia del provvedimento asserendo che il problema non sarebbe il principio o lo strumento in sé, ma una sua presunta applicazione troppo severa. Nulla di più fuorviante. Al contrario – ed è su questo che vorremmo concentrare l‘attenzione – il Daspo urbano è affine ed in continuità agli altri strumenti repressivi e misure d‘allontanamento che già colpivano e ancora colpiscono i poveri, gli “indecorosi“ e altri soggetti sgraditi.
Su un piano ideologico e concettuale il Decreto Minniti riprende le tante e diverse ordinanze emanate in questi anni dai sindaci per contrastare il bivacco, la prostituzione, il consumo di alcolici e stupefacenti, l’accattonaggio o addirittura in alcuni casi l’assembramento di più persone in luoghi pubblici. Sulle misure che risultano applicabili a un corpo sociale vasto (come quelle di contrasto alla “movida”), e che illustrano in modo esemplare la “lotta al degrado“ condotta dalle istituzioni, ci concentreremo negli incontri della giornata di sabato 24 febbraio.
In queste righe, preliminari invece all‘incontro del venerdì “Dal daspo negli stadi al daspo urbano”, ci interessa segnalare gli strumenti di prevenzione amministrativa con disposizioni di allontanamento già in essere ben prima del Decreto Minniti, e che hanno una lunga storia alle spalle.
Per i migranti (comunque i più colpiti da “Daspo urbano”) il testo unico sull’immigrazione prevedeva già, oltre alle possibilità di trattenimento ed espulsione coatta, la possibilità per il questore di emettere un ordine di allontanamento che obbliga il migrante a lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni. Per attivisti e militanti di movimenti sociali o controculturali, così come anche per Rom e Sinti e per tante/i sex-workers, è stato il foglio di via lo strumento che le questure hanno più utilizzato. Si tratta anche in questo caso di un provvedimento preventivo fondato sulla presunta pericolosità sociale. Fu introdotto esplicitamente nell’Italia monarchica del 1865 quando comparve nel primo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.) e fu poi ripreso nel nuovo T.U.L.P.S. fascista del 1926 dopo una trentina di anni d’abbandono. Dopo la fine del fascismo rimase intatto l’impianto delle misure preventive, furono solo specificate le categorie di soggetti punibili.
Infine l’ultimo e forse più importante riferimento si trova ovviamente nel D.A.SPO vero e proprio, ovvero il “divieto di accesso a eventi sportivi”. Introdotto nel 1989, prevede l’allontanamento del soggetto ritenuto pericoloso dai luoghi in cui si svolgono alcune manifestazioni sportive. Viene emesso direttamente dal questore e non necessita di una condanna.
I termini del Daspo (negli stadi) sono stati più e più volte modificati determinando l’estensione della durata fino al massimo attuale di 5 anni. Esso è stato affiancato da ulteriori strumenti repressivi come la possibilità di arresto da 3 a 18 mesi, la diffida ed infine il paradossale “arresto in flagranza differita” fino a 48 ore (introdotto nel 2010 da Maroni, ripreso dall’altro decreto Minniti, quello di aprile 2017, che estende questa possibilità ai reati connessi alle manifestazioni di piazza).
In seguito a una delle tante modifiche per decreto, nel 2001 gli ultras di molte curve appesero striscioni fortemente evocativi che recitavano “Leggi speciali: oggi per gli ultrà, domani in tutta la città.”
Dopo più di 15 anni è il caso di dire che dovremmo fare più attenzione a cosa succede negli stadi, spesso veri e propri laboratori di sperimentazione delle pratiche repressive.
Una lettura complessiva di questo tipo pensiamo possa aiutarci nel comprendere la forza degli strumenti repressivi in campo e poter pensare una critica che porti all’attacco, oltre le banalità dell’indignazione democratica.

Free Party: repressione, messa a profitto e prospettive politiche

Il controllo dei corpi, degli spazi che questi vivono, passa anche dal divertimento. I provvedimenti istituzionali che mirano a regolamentare le modalità, i tempi e i luoghi della socialità si moltiplicano a vista d’occhio. Tra i molti obiettivi che animano queste strategie, sicuramente si può individuare, da un lato la gestione del profitto che deriva dalle attività ricreative (no money, no party!), dall’altro il controllo del divertimento stesso, portato avanti con ordinanze e polizia, ai fini di assicurare ai cittadini un tempo libero protetto dal disordine, dal bivacco, dal caos notturno di musica assordante e dal consumo abusivo di alcolici (non parliamo delle droghe!). Insomma, un tempo libero che, con il pretesto del decoro, viene ritagliato e modellato ottimizzando la sua messa a profitto.
Sin dalla sua nascita, l’esperienza dei free party ha risposto all’esigenza di affermare una zona altra, esterna alle dinamiche imposte dalle istanze economiche, amministrative, istituzionali che regolano la quotidianità dello spazio “pubblico” e di chi lo attraversa. Una zona libera dai grossi flussi economici, ottenuta mediante la pratica dell’occupazione e regolata attraverso la possibilità di accedervi liberamente. Una zona libera dai tempi della società civile, in cui la musica può andare avanti per interi giorni. Una zona ostile al proibizionismo, alla politica volutamente miope e riduttiva che lo caratterizza. In poche parole una zona che nasce, si organizza e si moltiplica nell’illegalità; che non riconosce, e spesso contesta, la legalità come limite applicabile alla propria possibilità di articolazione. Nella sua connotazione più politicizzata, questo complesso fenomeno, ha saputo allestire una critica alle forme di socialità offerte e imposte dall’esistente, contagiando in maniera virale le geografie di città, zone industriali e rurali, donando loro, in zone circoscritte e per tempi relativamente limitati, una fisionomia aliena al grigiore consuetudinario.
Ma i tempi sono cambiati. Chi ha vissuto la stagione d’oro delle feste ne parla con nostalgia, come di una parentesi meravigliosa e irrimediabilmente perduta. Eppure i free party continuano a esserci; le persone continuano ad andarci.
È chiaro come l’organizzazione di queste feste, che si muove nella dimensione dell’illegalità, sia stata costantemente oggetto di numerose azioni repressive. Controlli, denunce e sgomberi hanno sempre accompagnato la storia dei free party. Con il passare del tempo le strategie di controllo si sono sedimentate, è stata collaudata una serie di risposte, nella lotta a questo tipo di esperienze. Il controllo è divenuto capillare negli ultimi anni, setacciando informazioni che sempre più girano su Facebook, su Whatsapp, sui GPS dei cellulari.
Indubbiamente, molte delle istanze portate avanti dal movimento dei free party sono state convertite e reinserite nel grosso flusso di denaro. Locali privati organizzano serate goa fino alla mattina. Grandi festival richiamano migliaia di persone, spingendo musica tekno per giorni. Il tutto rigorosamente per il business. La possibilità di raduno è garantita, in uno spazio ritagliato, regolamentato, assicurando la possibilità di usi e consumi con prezzi da club.
D’altro canto neanche le feste illegali che continuano a svolgersi, sono aliene alla messa a profitto. In diverse occasioni, la volontà di battere cassa si è imposta sulle altre dinamiche, trascurando le istanze di autonomia che pur sempre hanno caratterizzato l’esistenza dei free party.
Di conseguenza, sentiamo la necessità di proporre una discussione attorno alle possibilità di riorganizzazione di queste feste, con l’obiettivo di coinvolgere chiunque viva questo momento, non solo come una semplice sospensione carnevalesca della vita quotidiana, ma come forma di esperienza che porti con sé una critica al reale. Un confronto teso ad affrontare le contraddizioni che attraversano l’organizzazione di questi eventi, provando a sviluppare dal basso delle prospettive di auto-organizzazione politica. Un dibattito che ponga al centro l’esclusione di forme di fascismo, sessismo, razzismo dalla nostra voglia di divertirci. Un divertimento che rivendica la propria opposizione alle dinamiche del profitto e del controllo.